Senza alzare le mani, impegnate a danzare sulla tastiera in modo egregio. Unico vantaggio della ragioneria, dove la dattilografia era insegnata su vecchie macchine da scrivere con il nastro bicolore.
Ma torniamo alle lacrime. Chi piange? E perché?
A quanto sembra alcune volte vado a sfiorare le corde delle emozioni di chi intervisto. Che brutto termine ho utilizzato, visto che si tratta di chiacchierate, nella maggior parte dei casi informali, che poi metto su carta dopo aver metabolizzato l'incontro.
E questa cosa mi fa piacere, ma anche no. Io, che alcuni colleghi mi avevano addirittura presagito una florida carriera come happy manager. Io, che cerco di farmi paladino delle buone notizie. Io, convinto sostenitore dei modelli positivi.
Però ripensandoci meglio, quel "faccio piangere" è qualcosa che si differenzia e distacca completamente da qualsiasi forma di spettacolarizzazione del dolore. Cosa della quale non posso che avere ribrezzo. Quel "faccio piangere" mi piace più intenderlo come il vibrafono della singola sensibilità, il quale porta comunque alla fine a sorridere. A stare bene, perché qualcuno ha colto nel segno. Romanzando o meno, però la nota l'ha presa. Quella nota che poi da inizio a quella splendida sinfonia, che è il nostro essere. Nelle sue complessità. Nelle sue spigolature. Nelle sue fragilità.
Basta mi fermo qui, altrimenti vien da piangere a me.
Qualcuno ha un fazzolettino?
-:)
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